venerdì 12 dicembre 2008

Le visioni interiori.di Bill Viola

Un entusiasmante Bill Viola al Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale, a Roma.
Un percorso di video installazioni di cui Viola è precursore e maestro eccelso, una traccia che si compie per più della metà in totale silenzio: deducendo la simbologia, capendo senza che nessuno possa spiegarti, ancora meglio conoscendo la poetica e la forte ispirazione spirituale dell’artista tratta dallo studio di tutte le confessioni religiose.
Si passa da una rivisitazione della deposizione del Cristo, lenta ma efficace, un’esplosione di fasci muscolari che fuoriescono dalla fonte, alla meditazione buddista della “Catherine’s room” che ritrae i quattro momenti della sua giornata: yoga, meditazione zen, l’ora dello studio a quello del riposo.

Le parole si smorzano quando si approda da un'installazione all'altra, soprattutto di fronte alla gigantesca “The Greeting”, una lettura moderna di un’opera del Pontorno (L'Annunciazione).
Si rimane basiti, è quasi inquientate la sensazione dell'attesa, c'è l'aria plumpea di un avvenimento imminente.
La lentezza con la quale due donne si incontrano e si salutano formalmente è interrotta dall’arrivo di un'altra donna che sussurra:”Help me, you are the one who can understand” e ricorda l'avvento dell'arcangelo Gabriele che parla a Maria:"tu sei l'unica che può capire".

Una profusione di messaggi, molto difficili da comprendere, Bill Viola è l'artista dell'estraniamento. Si esce dalle sue retrospettivi carichi di pensieri, di curiosità, di una pesantezza piacevole, quella del sapere, della voglia di conoscenza, dell'improvvisa capacità di vedere che facciamo parte di qualcosa di più grande.

La mostra è interamente curata dalla moglie Kira Perov, conosciuta durante una collaborazione artistica e sua compagna dal 1980.
Viola è nato nel 1951 a New York e attualmente vive e lavora a Long Beach, in California.

venerdì 7 novembre 2008

Blocco Studentesco Vs Collettivo









Mattinata nera in piazza Navona. Doveva essere sede di dialogo e confronto, invece si sono viste solo spranghe ornate in tricolore e giù botte.
Fa rabbia vedere strumentalizzata la politicizzazione di giovani studenti che sanno ancora così poco della vita. Si erano trovati là più per malmenarsi che per risolvere il problema delle loro scuole, della formazione che nel loro, nel nostro Paese conta tanto.
Ignorano che ben presto gli servirà molto altro, molto più del coraggio a metà, con un piede in attacco e l’altro pronto a fuggire, dimostrato in piazza sotto lo sguardo di pietra del tritone del Bernini.
Estrema destra, Estrema sinistra. Non resta che fingere di non distinguerli neanche, sorridere solo del fatto che gli uni (teste rasate) si differenziano dagli altri (capelloni) giusto dalle acconciature. Il resto è sconcerto.
Comunicazione e Protesta sono andate di pari passo nella storia.
Per difendersi. Per farsi sentire. Per prevaricare. Per affascinare o convincere.
L’urlo ha sempre avuto fascino rispetto al bisbiglio e alla parola incerta.
Per questo non demonizzo. Anzi.
Ma è nel momento in cui il dissenso si colora di intimidazioni e violenza che il carisma dei leader sfuma e restano gli spettacoli raccapriccianti come quello di pochi giorni fa, uno obbrobrio che probabilmente continuerà a verificarsi (soprattutto se le forze dell’ordine decideranno di intervenire un po’ a loro piacimento, in ritardo? Disattenti? ndr).
Mai giudicare però, specialmente quando non si è presenti. Io infatti non c’ero, lontana e dalla manifestazione anti-riforma Gelmini ( che forse tanto male non è. Il 7 in condotta magari non ferma questi delinquenti ma almeno li disturba) e dall’orrore di due fazioni che ai tempi di guelfi e ghibellini se non altro si vestivan colorati e sembrava una festa.

venerdì 31 ottobre 2008

“Datemi un museo e ve lo riempirò”. Cit. P. Picasso. Poliedrico di mille colori, come Arlecchino.



Grande Pubblicità, Piccola Sorpresa.
Quando ci si mettono il Patronato del Presidente della Repubblica Italiana, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la collaborazione del Comune di Roma e via dicendo, una promozione con i controfiocchi è prassi.
“Picasso 1917 – 1937 L’Arlecchino dell’arte” è il nome dell’esposizione in questione, nello scenario del Complesso del Vittoriano di Piazza Venezia.
Apro e chiudo una parentesi, sebbene mi fossi trovata alla mostra più per osservare allestimento e opere che il loro ‘guscio’, mi ha colpito quanto l’ubicazione degli eventi riesca a sopperire le mancanze delle organizzazioni.
Il complesso del Vittoriano, con le grandi finestre dall’intelaiatura semplice e l'affaccio sulle luci della piazza, e le colonne mal celate che fanno emergere dal cartongesso il capitello, mi hanno realmente distratto dal percorso della mostra e, ahimè, da un Picasso un po’ visto e rivisto.
Niente togliere al maestro, s’intende.
Le sue linee scomposte e il sarcasmo delle forme spacciate per visi imbronciati che, se le guardi bene, assumono forme falliche.
Il problema è voler attirare l’attenzione su un prodotto inedito: il viaggio a Roma, per la verità durato poco più di un anno, che ha portato l’artista a confondere lo stile cubista con la prepotenza del ritratto rinascimentale ancora vivo in Italia.
Un problema perché, esclusa la piccola serie di opere nate da questo dilemma artistico, le altre, pur concesse da prestigiose collezioni, sembrano un’accozzaglia di cose messa là per fare colore. Confusionaria e un po’ ingiustificata.

Interessante piuttosto l’escamotage delle cornici, tutte diverse le une dalle altre, accostate per dislivelli così da creare un gioco divertente per l’occhio.

La sala più rappresentativa della mostra (e la più piccola) è quella che ci presenta “L’Arlecchino” che dà il nome all’esposizione, dalle forme e i colori tenui. Un volto melanconico e le pezze del vestito stranamente in ordine geometrico.
Dirimpettaia è “L’Italiana “, fanciulla della Roma degli anni Venti, un po’ popolana e un po’ contessa, con una cesta di frutta in mano ma l’abito elegante, mentre alle sue spalle il cupolone fa capolino. Scusando il gioco di parole.
E poi un inconfondibile orecchio che spicca dalla composizione, tutto cubista, che si fa largo tra i colori caldi dell’arancio, del giallo e del rosso e le pennellate nere.

Due figure completamente diverse. Una triste, l’altra esplosiva. Dipinte quasi in contemporanea (sono entrambe state dipinte nel 1917 nello studio di via Margutta dove Picasso lavorava durante il suo soggiorno a Roma), mentre il suo conflitto interno si batteva tra la scelta di segni morbidi, quelli dell’arte classica e del corpo nella sua forma perfetta, e il caos dei segni, il cubismo di cui è diventato baluardo.

L’esposizione, disposta per la maggior parte su uno stesso livello ma con molte sale separate, è organizzata cronologicamente (1917-1921;1925-1931;1932-1935; 1935-1937 ). Lo spettatore percorre una sorta di catarsi inversa, piacevole nelle salette più anguste, da capogiro e spersonalizzante una volta arrivati al salone finale: l’idea di Alessandro Nicosia (Comunicare Organizzando) è interessante.
In fondo l'unico criterio organizzativo dolente è il tentativo di riempire gli spazi con tutto quello che a disposizione, ma si sa, ogni museo ha delle regole e questa era probabilmente un'imposizione dall'alto.
E’ altrettanto vero che rendere il merito ad un artista così poliedrico è una volontà di cui non si può fare a meno, geniale solo se studiata bene.
E' la sala finale ad avere in sè un po' di quel guizzo: sezionata in nicchie, negli anfratti delle quali si capita un po’ per caso, saltando qua e là tra una fiumana di gente e l’altra: un corridoio quadrangolare che domina il salone dal piano di sopra che contiene "solo" la Suite Vollard , 100 incisioni su committenza che dovevano decorare gli spazi di proprietà del gallerista ed editore da cui prende il nome la collezione, che però non ne vide la conclusione per la morte improvvisa.
Le opere del ’36, in piena guerra civile spagnola, perdono la goliardia del piano di sotto e acquistano il gusto di Guernica.

Uscita un po’ delusa, mi accorgo adesso, nel ricomporre i pensieri, che la mostra ha un suo perché ed è forse banale che lo dica io che non sono nessuno.
Ma credo esista un nesso che lega l’esposizione anche se sinceramente mi sfugge.
Un po’ come per Picasso, o si finge di capirlo e si ama, o si ignora completamente la sua follia e ci si limita ad osservarlo inclinando la testa come gatti perplessi.

venerdì 17 ottobre 2008

Il cas(in)o Alitalia


La prima reazione è stata un tumulto di applausi, slogan e ovazioni.

I dipendenti di Alitalia hanno festeggiato l'offerta della Cai per l’acquisto della compagnia di bandiera: all'annuncio ufficiale dei sindacalisti sono tornati i sorrisi sui visi delle hostess. L’aeroporto di Fiumicino è stato assediato da circa un migliaio di dipendenti e al passaggio delle telecamere volti da starlette si sono fatti avanti.
Alcuni adesso li potremo perfino scovare su qualche giornaletto da parrucchiera, questo ad ulteriore dimostrazione del fatto che, ancora una volta, la comunicazione invasiva della televisione ha alterato il flusso naturale degli eventi. In grado di veicolare contenuti talvolta poco "convenzionali" e politicamente corretti.

Dopo risate e schiamazzi è la volta delle manifestazioni di protesta: "Meglio falliti che in mano a 'sti banditi'' il motto più famoso, quello che si sente nella registrazione trovata tra tante simili su Youtube. Gridato per le strade di Roma e Milano, arene caotiche di uno scorcio di questa Italia sempre più scombussolata.
Verrebbe da chiedersi cosa ci sia da esser contenti di fronte ad una situzione così grave. Ma proprio perchè estrema, tanto vale giustificare. A volte si può perdere il senno.

Untitled (Yellow, Pink and Lavander on Rose). Tu non sapresti farlo.

“Che ci vuole? Saprei farlo anch’io”.Che bizzarro modo per sembrare totalmente inesperto.
Sarebbe meglio ammetterlo e farla finita.

Perché se un Mark Rothko 204x141 cm è stato battuto per la cifra record di 72,84 milioni di dollari da Sotheby's a New York, vuol dire che un qualunque inetto non potrebbe dipingerlo.

Protagonista dell’espressionismo astratto degli anni Quaranta, spopola di figure le sue tele e le riempie di colore. Alla ricerca continua di quello che chiama Assoluto, lo fa con forme semplici accostando grandi zolle di olio, spesso separate da un limbo, una fascia centrale che le interrompe. Sembra voglia porsi come obiettivo una catarsi, il passaggio da una fase (lilla) all’altra (ocra).L’arte contemporanea decide di rimanere elitaria, incomprensibile per chi non vuole soffermarsi, una frammento della nostra cultura che se da una parte rimane inesplosa ed oscura, dall’altra, snob com’è da sempre, si nasconde, si offre solo a pochi.
Per questo non è poi così difficile capire il punto di vista polemico di chi invece è appassionato, che si vede obbligato a violentarsi con frasi del genere, sentendole tra i bisbigli, durante il percorso della grande antologica di Mark Rothko al Palazzo delle Esposizioni di Roma.
Esiste un elemento che si ignora, per ignoranza, quello della poetica che l’artista attribuisce all’opera, un elemento imprescindibile per la sua lettura e comprensione.

Mi rendo conto che la questione sia più critica in Italia, Paese di grandi maestri della pittura e della scultura come Caravaggio e Michelangelo, occhio abituato a linee morbide e proporzioni perfette. Ma so anche che questi sono i discorsi delle generazioni, spaventate dall'avvento del nuovo.
Quando si susseguono gli stili ogni arte muore, diventa cadavere. E a quel punto si può sezionare, studiare, sviscerare.
Ma quella contigente è la lingua di adesso e deve essere prima capita e poi parlata.
E' ignota, è vero, e fa paura, ma questo è il punto di rottura esatto tra il passato e il futuro, quello bello da capire.
La prima volta che sono rimasta affascinata da Rothko è stata a New York. Dieci giorni prima, in una commedia americana, mi aveva divertito una Uma Thurman imbarazzata di fronte ad una tela gigantesca del suo pittore preferito, messa lì, vicino alla sua cena, da un affascinante restauratore.
Vedere lo stesso quadro del film, a distanza di poco tempo, su una parete del MoMA è stato un po’ come incontrare un attore famoso, seduto sulla metro davanti a te. Lo immagini diverso, magari più alto, finchè ti accorgi, mentre lo spii, che certi particolari che attraverso lo schermo ti eri perso, lo rendono più intrigante.Per me quel quadro era diventato più ossessionante di Orlando Bloom.

In America idolatrato, in Italia incompreso. Ma si sa, non si può piacere a tutti, soprattutto se si è geniali.
Dico il vero, forse anche io non lo amerei se non mi fossi documentata, per questo inserisco un piccolo stralcio del suo pensiero, così da sperare, magari invano, di incuriosire qualcun altro:

“Potrei dimostrare quanto io non sia un artista astratto. Non mi interesso dei rapporti di forma e colore o qualsiasi altra cosa del genere. Mi interessa solo esprimere le più fondamentali sensazioni umane, tragedia, estasi, fatalità e cose simili. Il fatto che molti uomini dinanzi ai miei quadri crollino e si mettano a piangere dimostra che io sono in grado di dare espressione alle fondamentali sensazioni umane.. è come compiere la stessa esperienza religiosa che io compio quando li dipingo.
Se vi soffermate solo ai loro rapporti cromatici, allora vi sfugge l’essenziale; il colore è solo un mezzo”.

Il viaggio che gli occhi fanno dal basso fino ai vertici delle sue tele numerate, senza nome né segni di riconoscimento, ci obbliga a passare attraverso l’intermezzo che le separa, una fase di cui Rothko parla come di una trasmigrazione metaforica dell’anima una volta morti.
Dopo c’è solo tutto quel colore intenso che avvolge come musica da camera.

Sindrome di Stendhal? Forse.
Se si guarda troppo, credo si possa perfino correre il rischio di rimanere di pietra.











sabato 11 ottobre 2008



"Come mai tutto questo traffico stamattina?"


Sperimentando...nella confusione di stamattina. con un sonno numero uno.
Ma il caffè?