venerdì 31 ottobre 2008

“Datemi un museo e ve lo riempirò”. Cit. P. Picasso. Poliedrico di mille colori, come Arlecchino.



Grande Pubblicità, Piccola Sorpresa.
Quando ci si mettono il Patronato del Presidente della Repubblica Italiana, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la collaborazione del Comune di Roma e via dicendo, una promozione con i controfiocchi è prassi.
“Picasso 1917 – 1937 L’Arlecchino dell’arte” è il nome dell’esposizione in questione, nello scenario del Complesso del Vittoriano di Piazza Venezia.
Apro e chiudo una parentesi, sebbene mi fossi trovata alla mostra più per osservare allestimento e opere che il loro ‘guscio’, mi ha colpito quanto l’ubicazione degli eventi riesca a sopperire le mancanze delle organizzazioni.
Il complesso del Vittoriano, con le grandi finestre dall’intelaiatura semplice e l'affaccio sulle luci della piazza, e le colonne mal celate che fanno emergere dal cartongesso il capitello, mi hanno realmente distratto dal percorso della mostra e, ahimè, da un Picasso un po’ visto e rivisto.
Niente togliere al maestro, s’intende.
Le sue linee scomposte e il sarcasmo delle forme spacciate per visi imbronciati che, se le guardi bene, assumono forme falliche.
Il problema è voler attirare l’attenzione su un prodotto inedito: il viaggio a Roma, per la verità durato poco più di un anno, che ha portato l’artista a confondere lo stile cubista con la prepotenza del ritratto rinascimentale ancora vivo in Italia.
Un problema perché, esclusa la piccola serie di opere nate da questo dilemma artistico, le altre, pur concesse da prestigiose collezioni, sembrano un’accozzaglia di cose messa là per fare colore. Confusionaria e un po’ ingiustificata.

Interessante piuttosto l’escamotage delle cornici, tutte diverse le une dalle altre, accostate per dislivelli così da creare un gioco divertente per l’occhio.

La sala più rappresentativa della mostra (e la più piccola) è quella che ci presenta “L’Arlecchino” che dà il nome all’esposizione, dalle forme e i colori tenui. Un volto melanconico e le pezze del vestito stranamente in ordine geometrico.
Dirimpettaia è “L’Italiana “, fanciulla della Roma degli anni Venti, un po’ popolana e un po’ contessa, con una cesta di frutta in mano ma l’abito elegante, mentre alle sue spalle il cupolone fa capolino. Scusando il gioco di parole.
E poi un inconfondibile orecchio che spicca dalla composizione, tutto cubista, che si fa largo tra i colori caldi dell’arancio, del giallo e del rosso e le pennellate nere.

Due figure completamente diverse. Una triste, l’altra esplosiva. Dipinte quasi in contemporanea (sono entrambe state dipinte nel 1917 nello studio di via Margutta dove Picasso lavorava durante il suo soggiorno a Roma), mentre il suo conflitto interno si batteva tra la scelta di segni morbidi, quelli dell’arte classica e del corpo nella sua forma perfetta, e il caos dei segni, il cubismo di cui è diventato baluardo.

L’esposizione, disposta per la maggior parte su uno stesso livello ma con molte sale separate, è organizzata cronologicamente (1917-1921;1925-1931;1932-1935; 1935-1937 ). Lo spettatore percorre una sorta di catarsi inversa, piacevole nelle salette più anguste, da capogiro e spersonalizzante una volta arrivati al salone finale: l’idea di Alessandro Nicosia (Comunicare Organizzando) è interessante.
In fondo l'unico criterio organizzativo dolente è il tentativo di riempire gli spazi con tutto quello che a disposizione, ma si sa, ogni museo ha delle regole e questa era probabilmente un'imposizione dall'alto.
E’ altrettanto vero che rendere il merito ad un artista così poliedrico è una volontà di cui non si può fare a meno, geniale solo se studiata bene.
E' la sala finale ad avere in sè un po' di quel guizzo: sezionata in nicchie, negli anfratti delle quali si capita un po’ per caso, saltando qua e là tra una fiumana di gente e l’altra: un corridoio quadrangolare che domina il salone dal piano di sopra che contiene "solo" la Suite Vollard , 100 incisioni su committenza che dovevano decorare gli spazi di proprietà del gallerista ed editore da cui prende il nome la collezione, che però non ne vide la conclusione per la morte improvvisa.
Le opere del ’36, in piena guerra civile spagnola, perdono la goliardia del piano di sotto e acquistano il gusto di Guernica.

Uscita un po’ delusa, mi accorgo adesso, nel ricomporre i pensieri, che la mostra ha un suo perché ed è forse banale che lo dica io che non sono nessuno.
Ma credo esista un nesso che lega l’esposizione anche se sinceramente mi sfugge.
Un po’ come per Picasso, o si finge di capirlo e si ama, o si ignora completamente la sua follia e ci si limita ad osservarlo inclinando la testa come gatti perplessi.

1 commento:

Paola ha detto...

Brava Ilaria, con piacere leggo i tuoi articoli e pure con piacere è evidente che la tua esperianza come reporter si sta davvero concretizzando se già non lo è in definitiva...
Dall'articolo di cronaca alla critica d'arte ti esponi in maniera pulita, accattivante e chiara.
Ricordo di questa giovane fanciullina che desiderava diventare una giornalista e ora leggo qualche suo articolo e il suo faccino da giovane donna che si interroga sul mondo ma allo stesso tempo riesce a dare l'idea di viverlo in prima persona, il che immagino per il tuo lavoro sia un dato essenziale...
Ti auguro di emergere per la tua intelligenza e sensibilità, soprattutto di tenerti alla lontana dal landazzo ormai avviatosi nell'ambito dell'informazione: quello del renderla un romanzo.
Ricordo che forse, per come sei, chissà... Confidiamo in menti non "geneticamente modificate"...!
Ilaria, brava, ci sei!
Una tua vecchia amica...
Paola Amoruso